Per non dimenticare, un ricordo di Raffaello Giolli a cura di Gabriella Izzi Benedetti

olocausto dom 24 gennaio 2021

Vasto Noto critico d’arte, internato a Vasto nel 1940, liberato, arrestato di nuovo a Milano nel 1944 e deportato a Mauthausen, dove morì il 6 gennaio 1945.

Attualità di La Redazione
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La Shoah ©Il libraio
La Shoah ©Il libraio

VASTO. Il 27 gennaio di ogni anno, giornata – anniversario mondiale della Memoria, ha il merito di tributare un omaggio ai milioni di individui, di ogni razza, confessione, ideologia,vittime di violenza cieca, e trasmettere un’esortazione: che una delle più terribili pagine della storia non venga dimenticata. Una pagina di orrore e liberazione, poiché in quel giorno, 27 gennaio 1945, il campo di sterminio di Auschwitz venne liberato e si palesò con raccapriccio ciò di cui quei luoghi erano stati testimoni e depositari. Si deve all’impegno di Furio Colombo se questa celebrazione è stata istituita in Italia nel 2000. Ratificata con la risoluzione 60/7 dall’Assemblea generale dell’ONU il 1° novembre 2005.

In una cerimonia molto sentita, due anni fa, in occasione della ricorrenza del Giorno della Memoria, fu posta presso il Liceo scientifico R. Mattioli una pietra d’inciampo per commemorare Raffaello Giolli, il raffinato critico d’arte piemontese confinato a Vasto, allora Istonio, assieme al figlio Paolo, per le sue idee antifasciste, e che morì a Mauthausen nel 1945. Pietre d’inciampo gli hanno dedicato molte città; tra esse non poteva mancare Milano, dove molta parte della sua vita si svolse.

Giolli, nato nel 1889 ad Alessandria, di fede cattolica, dedicò la sua vita allo studio dell’arte e alla critica artistica, con particolare attenzione alle avanguardie. Di formazione crociana, rispettoso di qualunque espressione artistica, cercò tuttavia di individuare la validità espressiva,più che nel movimento di provenienza, nel singolo artista; ad esempio ebbe delle perplessità riguardo al futurismo, ma non riguardo a Boccioni. Del futurismo non amava la dissacrazione del passato, poiché nel passato ci sono gli elementi che preparano il futuro. Docente, scrittore di saggi, si doleva di un certo provincialismo dell’arte italiana, e cercò di svecchiarla anche attraverso riviste che fondò, come Problemi d'arte attuale, che in seguito prese il nome di Poligono. Dopo molti anni di docenza presso l’Accademia libera di Vincenzo Cento, presso licei statali milanesi Berchet, Parini, Beccaria, viene allontanato dall’insegnamento per aver rifiutato il giuramento fascista. Giolli intuisce il pericolo per l’arte di venire associata alla politica e da essa usata, come era avvenuto in Germania in cui l’arte o era di regime oppure veniva estromessa. Ma qualcosa del genere era successo anche in Russia dove la letteratura era stata aggregata alla dittatura. Questo atteggiamento, del resto, è diffuso sempre e dovunque in regimi dittatoriali. Cosa dovrebbe fare la società, allora. Non affidarsi allo Stato, illudendosi che lo Stato sia un mecenate che lascia spazio alla libertà di espressione. Se protegge, vuole asservire. E il regime si preoccupa di operare in tal senso dalla prima infanzia. Le idee di Raffaello Giolli generano sospetto. E’ inviso al governo, l’OVRA lo arresta e lo interna a Istonio Marina (Vasto), dal luglio 1940 al febbraio 1941, assieme al figlio Paolo. Giolli ha 51 anni. Tornato in Lombardia la sua attività antifascista prosegue; entrerà a far parte del movimento partigiano della Val d'Ossola. A Milano forma un gruppo di lotta costituito per la maggior parte da artisti e intellettuali, collabora con giornali clandestini, fino a che il 14 settembre 1944 viene arrestato con la moglie e il figlio Federico, torturato e infine deportato a Mauthausen, in Austria, dove muore al campo Gusen il 6 gennaio 1945. Non saprà mai della morte del figlio Ferdinando, promettente poeta e critico letterario, fucilato nell’ottobre del 1944 a Villeneuve in Val d'Aosta.

Giolli, si diceva, fece parte del gruppo degli internati a Vasto Marina, molti dei quali persone di cultura, che trovarono nel direttore della Biblioteca comunale, Luigi Anelli, un uomo aperto, persona colta, che seppe apprezzare la loro presenza e condividere la loro situazione.

Nicola D’Adamo che ha collaborato al testo I fili della memoria: anni di guerra 1943/44. Testimonianze e approfondimentiprogettato dalla Società Vastese di Storia Patria, ci ha trasmesso l’elenco degli internati, oltre a una interessante ricerca su alcuni di coloro che furono i confinati a Istonio Marina. Tra i molti Mario Borsa in seguito direttore del Corriere della Sera, Guido Mazzali giornalista e uomo politico, Giuseppe Scalarini, celebre vignettista, Raffaello Giolli (l’unico ad aver fatto una fine così atroce) sul quale si sofferma, riportando anche la testimonianza di Giorgio Pillon che conobbe il critico d’arte.

La prefazione di Pillon al libro di Luigi Anelli Ricordi di Storia Vastese, diviene un significativo approccio alla personalità del Giolli: “Giolli era stato fino ad allora un notissimo critico d’arte. Legato alle esperienze del Novecento, aveva appoggiato non poche iniziative delle avanguardie razionalistiche, in particolare quella del Gruppo 7, tese a rinnovare la cultura architettonica italiana … Inoltre era stato lui ad imporre in Italia la pittura di Pablo Picasso.Ancora oggi ricordo come don Luigi Anelli – nella pace della “sua” biblioteca – accogliesse l’esaltazione di Picasso. Scuoteva la testa e indicandomi Raffaello Giolli mi diceva “Quello è matto”. Dice che Picasso vale mille volte Filippo Palizzi…. Una volta Raffaello disse a don Luigi e a me: “Voi non potete capire Picasso. E’ come se io citassi in greco classico l’Odissea a uno che non sa nemmeno parlare in italiano! “Ebbene” gli risposi “c’insegni il greco, cioè ci faccia capire Picasso”. Da allora Raffaello Giolli iniziò tutta una serie di lezioni che io ascoltai avvinto, ma che don Luigi Anelli seguì allegramente e saltuariamente”.

A Raffaello Giolli non fu d’aiuto essere di salda fede cattolica. Non fu d’aiuto a noti medici, scienziati ebrei e non, essere o essere stati dei benefattori dell’umanità nel campo della ricerca. Non fu d’aiuto a filosofi, artisti, intellettuali. Il libero pensiero meritava l’annientamento. Lo sappiamo, furono milioni. Un olocausto, si usa dire; ma il termine “olocausto”è, più che riduttivo, improprio, perché indica un sacrificio rituale, che potrebbe perfino sconfinare nel rito espiatorio. Ciò che è accaduto non ha niente di religioso e sacrificale, si tratta di assassinio vero e proprio. Non a caso in ebraico si preferisce il termine shoah = catastrofe. Da noi s’incomincia a privilegiare “annientamento, o sterminio”.

E annientamento fu sempre anche in luoghi dove, per una sorta di gradazione degli orrori, la situazione venne gestita in modo meno atroce, il che porta qualcuno quasi a giustificarli. Il sopruso è sopruso, la violenza è violenza, privare gli individui di diritti, di dignità, umiliarli,trattarli in forma bestiale equivale a ucciderli nell’anima oltre, come spesso è accaduto, nel corpo. E quelle ferite sono state così insanabili che tanti, anche a distanza di tempo, si sono tolti la vita. Questa terribile realtà, questi brutali metodi furono adottati anche dal Regime fascista, e non è possibile rimuoverli, ma bisogna andare a fondo, sviscerarli, perché non si ripetano mai più.

In Abruzzo i campi di concentramento furono molti, specie nel teramano (otto). Tanti dei detenuti vennero deportati nei luoghi di sterminio tedeschi. Tutti orribili; ma certo, Aushwitz fu la massima espressione della brutalità. E a tal proposito mi sento di trascrivere dalla rivista “Prospettiva persona” (72/10, p. 61) questo profondo pensiero di Giuseppe Graziani: “ad Auschwitz c’era l’uomo – lo sappiamo – e non solo tra le vittime, pure tra i carnefici. Nell’uomo, nell’umanità, quindi, è insita – l’abbiamo visto – la possibilità di Auschwitz. E da ciò ineluttabilmente, senza possibilità d’infingimenti, discende che il mondo, ancora, potrebbe essere costretto a contemplare – perché già ha contemplato – Auschwitz. L’odio è un formidabile combustibile, basta soffiare per il verso giusto e l’uomo – oggi come ieri – potrebbe nuovamente essere chiamato a dover scegliere, con coraggio, con paura, tra bene e male perché il mostro è sempre tra noi, è sempre gravido: ora veste i panni mai dismessi dell’antisemitismo; ora quelli subdoli di una diffusa, ma non dichiarata xenofobia; ora d’accesi nazionalismi ed odi etnici; alimentandosi, comunque, ciclicamente, delle medesime derive.

Auschwitz, in conclusione, si sostanzia in una drammatica possibilità umana ed in quanto tale in un luogo ove tutto di umano potrebbe essere possibile, perché tutto di paraumano vi è stato possibile: dell’abisso morale senza fondo e perciò senza Dio, alle vette più alte del sacrificio con Dio; dal pregiudizio dell’odio nazista, al pre-giudizio dell’amore di Massimiliano Kolbe, che donò la vita avuta in dono dal famigerato blocco undici del lager.”

E a chiusura di questo breve momento di riflessione e confronto, vi lascio con il monito di Bertolt Brecht, tratto dall’opera teatrale La resistibile ascesa di Arturo Ui. Monito sempre e tristemente attuale: “E voi imparate che occorre vedere e non guardare in aria; occorre agire e non parlare. Questo mostro stava una volta per governare il mondo. I popoli lo spensero, ma non cantate vittoria troppo presto. Il grembo da cui nacque è ancor fecondo”.

Ma riflettiamo anche sulle parole meno amare, non per semplificazione del problema, ma per la speranza che trasmettono, dette da Benedetto XVI, in visita, nel maggio 2006, ad Auschwitz: “Non sono venuto qui per odiare insieme, ma per amare insieme la vita, l’uomo, la sua dignità, la sua libertà”.

Gabriella Izzi Benedetti

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