Le "bottiglie di pomodoro", l'antropologa vastese Lia Giancristofaro ne parla su Rai 1

"quelle brave ragazze" dom 02 settembre 2018

Vasto Un'usanza popolare italiana diffusa in tutto il mondo

Cultura e Società di La Redazione
2min
La docente Lia Giancristofaro su Rai 1 ©Vastoweb
La docente Lia Giancristofaro su Rai 1 ©Vastoweb

VASTO. Di Lia Giancristofaro, docente di Antropologia Culturale presso l'Università degli studi "G. D'Annunzio" di Chieti-Pescara avevamo già parlato, ma torniamo a farlo perché lo scorso 13 agosto è stata ospite della trasmissione di Rai 1 "Quelle brave ragazze" per parlare del "giorno delle bottiglie", un'usanza popolare italiana che si è diffusa in tutto il mondo.

La professoressa ha focalizzato la sua attenzione di studiosa negli anni anche sul rituale della conserva di pomodoro nel Centro-Sud d'Italia, ricavandone vari articoli scientifici ed alcuni volumi fra cui La salsa siamo noi (Lanciano, Rivista Abruzzese, 2012) e Tomato Day, edito a Milano dalla casa Editrice Franco Angeli nel 2013, che ha avuto un grande successo di vendite.

La ricerca, infatti, riesce a coniugare lo studio antropologico con gli obbiettivi divulgativi, un connubio che ha fatto sì che la docente venisse chiamata in varie trasmissioni nazionali per spiegare il motivo per cui tante persone, proprio come all'epoca dell'indigenza, ancora oggi realizzano questo “fatto gastronomico” che è il più importante e caratteristico dell’estate abruzzese: il giorno delle bottiglie, una pratica popolare e tradizionale del Centro-Sud che si è diffusa anche altrove proprio grazie agli emigranti. L’osservazione della Giancristofaro, infatti, ha coinvolto la popolazione italiana, presa casualmente di regione in regione, e alcune comunità italiane di Toronto, Buenos Aires, Perth (Australia), Newark (USA).

Questo trattamento specifico del pomodoro infatti va inteso in senso culturale, prendando in esame, con prospettiva storica e antropologica, temi quali il folklore, la famiglia e la complessità dell’attuale paesaggio del cibo, come elemento dell’alimentazione post-moderna e del suo flusso culturale che si muove tra i poli contrapposti del “locale” e del “globale”, tra la produzione artigianale e industriale, tra il bricolage e la razionalizzazione, tra la filiera corta e la filiera lunga.

Questa tradizione del tempo della povertà, che passa attraverso la conservazione del pomodoro tramite disidratazione al sole (conserva), anziché spezzarsi sotto il peso delle migrazioni, delle diaspore e della facilità di attingere a un prodotto industriale che in questo periodo ha costi bassi, prosegue, invece, sotto le forme della creatività quotidiana, realizzando l’unico campo di azione nel quale l’economia globale può essere umanizzata e piegata ai bisogni reali delle persone. La famiglia, infatti, è l'anima di questa usanza, quale piccola comunità di sistemi di cura della persona e di controllo del sistema alimentare, che cade frequentemente sotto una sola figura: la madre. La ricerca, infatti, ha al suo centro non il pomodoro in sé, bensì il rapporto "speciale" che molte persone del Centro-Sud Italia hanno instaurato e tuttora intrecciano con la sua trasformazione in prodotto a lunga conservazione, tramite la sterilizzazione.

Nella ricerca emerge che il “giorno delle bottiglie”, quindi, non è un ritorno alla povertà del passato: si tratta invece, in prospettiva antropologica, di una "indigenizzazione della modernità", come un frammento culturale che è ancora efficace e che non costa nulla. Tramite una giornata trascorsa in famiglia o tra amici a lavorare insieme, viene rimessa in gioco la cultura del dono, del consumo solidale e della reciprocità, costituendo una piattaforma fondamentale della dieta mediterranea, salvaguardata dall’Unesco per la sua salubrità, per la sua sostenibilità ambientale e per il suo valore di civiltà.

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